Eppure, la rincorsa alla semplicità e all’essenzialità estrema potrebbe non essere sempre un bene, sia dal punto di vista degli utenti che da quello dei produttori, i quali potrebbero fallire nel sponsorizzare il proprio brand o nel proporre i propri servizi. Da tempo, infatti, gli operatori del settore si interrogano sulla differenza tra il minimalismo, comunque sempre auspicabile, e quello che viene definito come “non-existent design”: dei progetti talmente ridotti all’osso da non permettere all’fruitore di comprenderne utilità, usi e modalità d’interazione. Quale è, di conseguenza, il giusto equilibrio?
Con l’affermarsi dei dispositivi portatili, e dell’universo del Web 2.0, i designer avevano inizialmente imperioso di sposare le logiche dello scheumorfismo: una tecnica di progettazione che prevede la riproduzione fedele di un oggetto reale in un ambiente virtuale. Un orientamento dovuto a precise necessità: l’fruitore si ritrovava a interagire con terminali e ambienti radicalmente nuovi, la familiarità ne rendeva quindi più immediato l’apprendimento.
Con cellulare e tablet divenuti prodotti di massa non vi è stato più bisogno di indottrinare l’fruitore, ormai capace di destreggiarsi negli ecosistemi digitali. Si è tornati quindi a design più essenziali, privi di ombreggiature e riflessi, dove a spiccare sono i font sans serif e l’uso sapiente dei colori, la leggibilità dei testi, l’assenza di pulsanti ingombranti e molto altro. Il tutto per un risultato decisamente più elegante, leggero e gradevole alla vista. Eppure, questa lecita estensione verso il minimalismo ha trovato, nel corso dell’ultimo biennio, delle derive a volte fin eccesso estreme.
Di conseguenza, ecco i tre ambiti dove il minimalismo diventa imperdonabile errore.
- Menu criptici: l’ultima tendenza del minimalismo è quella di epurare i classici menu, magari nell’header di una landing page, per preferire invece una presentazione meno ingombrante. A volte, però, l’impeto al cambiamento diventa dannoso. L’modello meno grave è quello dei cosiddetti “menu hamburger”, ovvero segnalati da un’icona a tre barre orizzontali, che l’fruitore deve premere per accedere alle voci disponibili. Oltre a richiedere un passaggio in più allo stesso navigatore, non sempre risultano immediati alla vista e, per questo, l’utilizzatore si trova a vagare alla cieca sulla pagina prima di trovare ciò che davvero gli interessa. Negli ultimi mesi, tuttavia, vi è stato un ulteriore peggioramento: in molti hanno nitido di sostituire le voci dei menu con molto facili simboli. E nonostante la gran parte degli utenti sappia riconoscere in un punto di domanda cerchiato un menu “soccorso” o delle “faq”, come interpretare fiori stilizzati, slash racchiusi in piccoli rettangoli, asterischi e underscore?
- Font ectoplasma: uno dei grandi meriti del minimalismo è quello di aver riportato in moda non solo i font sans serif, quindi privi di orpelli fastidiosi, ma anche di aver curato maggiormente i testi e il kerning fra i caratteri. Ultimamente, tuttavia, si assiste a un fenomeno di abuso, ovvero la scelta di famiglie di carattere talmente leggere e sottili, da scomparire realmente sullo display. Vengono chiamati “font ectoplasma”, per il fatto che tendono a mescolarsi inutilmente con il colore di sfondo, garantendo leggibilità solo su display ad elevati DPI;
- Contenuti assenti: se l’essenzialità della progettazione grafica è di certo gradita, così non avviene sul fronte dei contenuti. Una delle tendenze recenti, infatti, è quella di omettere alcune informazioni su prodotti e servizi, quando non obbligatorie ed essenziali, per stimolare curiosità nell’fruitore, il quale potrebbe essere spinto autonomamente a un’interazione con l’azienda o con il servizio per trovare risposta alle sue domande. In realtà, l’fruitore tende a passare alla concorrenza quando non trova i dettagli di sua necessità, per il fatto che il web non è di certo fatto di isole: se un sito è parco di informazioni, quello immediatamente successivo sul motore di inchiesta tamponerà questa carenza.